Per almeno tre generazioni di Italiani gli Stati Uniti sono stati il Paese delle opportunità, la terra dove era possibile trovare nuove occasioni di vita, nuovi lavori e più giustizia sociale. Oggi non è più così. Dagli anni ’80 in poi oltre oceano conta sempre di più la famiglia in cui si nasce. Lo Stanford Center on poverty and inequality ha messo a confronto livelli di povertà, disuguaglianze, mobilità economica, assistenza medica e sociale e disoccupazione in 10 Paesi e gli Usa ne escono malissimo, tanto che l’Italia risulta essere un posto decisamente migliore. Il continuo aumento delle disuguaglianze economiche e sociali negli States si è tradotto in una minore longevità e in un forte aumento di malattie legate allo stile di vita, come i tumori dell’apparato digerente, le malattie cardiovascolari e il diabete. Il modello alimentare nordamericano certamente ha un forte peso su tutto questo. Già negli anni 60 – con i primi studi di Ancel Keys – si era capito che l’eccesso di carni grasse e la carenza di cibi vegetali comportavano seri rischi di salute. Nei decenni successivi l’industria alimentare e i fast-food hanno letteralmente inondato il Paese di cibo-spazzatura, piatti precotti e prodotti ricchi di sale, zuccheri raffinati e grassi saturi. Per contro, la nostra dieta mediterranea si è sempre caratterizzata per il grande apporto di fibre – da verdure, frutta, legumi e cerali integrali – quantità ridotte di grassi – in buona parte non saturi, grazie all’olio di oliva – e un’elevata percentuale di carboidrati complessi, dato che ogni giorno mangiamo pasta o riso, legumi o patate, e molto pane. Nella tavola dello statunitense medio, invece, sono presenti ogni giorno circa 300 grammi di carni – spesso di bassa qualità – poche verdure, spesso fritte, poca frutta e verdura. I primi piatti a base di pasta e riso sono molto rari, diversamente dai dolci confezionati o dalla frutta caramellata che spesso conclude i loro pasti. Il pane è abbastanza presente, ma è pieno di mollica e fatto con lo strutto. Il risultato? Una dieta iperproteica e piena di grassi con sempre meno cibo cucinato e sempre più cibo da asporto o scaldato nel microonde. L’aspetto paradossale di questi pasti con pochissimi carboidrati – una vera dieta low-carb – è la drammatica diffusione negli Stati Uniti del diabete alimentare o di tipo 2, con oltre il 10% della popolazione in malattia conclamata e un altro 10% che ha la malattia ma non sa di averla. Mangiare pochi carboidrati, inoltre, è rischioso anche per la mortalità generale. Uno studio di pochi anni fa (pubblicato su The Lancet) su oltre 15.000 adulti tra i 45 e i 64 anni, ha dimostrato che la mortalità aumenta sia con pochi carboidrati (meno del 40% dell’apporto calorico) sia con troppi (più del 70%), mentre è minima con gli apporti della Dieta mediterranea (50-55%). La dieta degli abitanti delle aree del mondo dove si vive più a lungo è sempre ricca di carboidrati complessi di buona qualità. Nelle cinque zone del pianeta con la massima longevità – tra cui la nostra Ogliastra in Sardegna – i centenari sono tutti magri, mangiano molti vegetali e poca carne, ma soprattutto ricavano dal 50 al 60% dell’energia dai carboidrati. Quindi, se “volete fa’ gli Americani”, ascoltate jazz, andate nei parchi naturali, guardate i loro film, ma a tavola fate come gli italiani (nella foto la bandiera degli Stati Uniti in chiave gastronomica dal sito www.taccuinigastrosofici.it; Tu vuo’ fa’ l’Americano è un successo del 1956 di Renato Carosone)