Oggi nel mondo circa un miliardo di persone sono obese: una persona su sette convive con una condizione che predispone a diabete, disturbi cardiovascolari, tumori e molte altre malattie. Tra poco più di 10 anni –  nel 2035 – gli obesi saranno quasi 2 miliardi. Siamo di fronte a un grave problema di sanità pubblica, che dovremmo affrontare con strumenti adeguati. Per questo motivo lo slogan della Giornata mondiale dell’Obesità – “Cambiare le prospettive: parliamo di obesità” – fa sorgere alcune domande. La prima domanda riguarda i motivi che hanno permesso questo aumento vertiginoso del numero di persone con tanti chili in eccesso. Proviamo ad elencarne alcuni.  Iniziamo dal cibo che arriva sulle nostre tavole: la quantità oggi non è più un problema – almeno nel mondo occidentale – ma sulla qualità ci sarebbe molto da dire. Agricoltura e allevamenti sempre più industrializzati hanno comportato una diminuzione del valore nutritivo e del sapore del cibo, con le eccezioni del settore biologico. Passando al versante spesa la diffusione capillare delle grandi catene di distribuzione ha favorito gli acquisti anonimiche spingono a consumi eccessivi di cibo voluttuari. Nel corso degli anni sono aumentati in modo esponenziale i pasti fuori casa, soprattutto nei locali fast food, dove il rispetto dei pasti sani ed equilibrati non è certo una priorità. Un fenomeno ancora più preoccupante è la tendenza a ridurre i negozi di cibo fresco – frutta, verdura, pane e farinacei – dalle zone povere, aumentando in chi ci vive la quota di cibi lavorati nel carrello della spesa. L’ultimo aspetto negativo è l’eccessivo potere contrattuale delle grandi aziende multinazionali del cibo che – come nel caso della tassa sugli zuccheri – possono fare causa agli Stati che cercano di limitare i danni del cibo-spazzatura. Naturalmente, negli ultimi decenni non ci sono stati solo aspetti negativi. Possiamo registrare in positivo la scomparsa della fame in larga parte del pianeta, la riduzione della monotonia alimentare, la maggior sicurezza del cibo. In una inchiesta alimentare degli anni ’50 in una comunità agricola di Rofrano  – in provincia di Salerno – il mio professore Massimo Cresta e gli altri ricercatori scrivevano: «Nella situazione attuale la popolazione è costretta a vivere in gran parte con i soli prodotti locali e ciò caratterizza anche la povertà e l’uniformità dei consumi alimentari che influiscono negativamente sulle condizioni di sviluppo degli abitanti». Nessuna nostalgia del passato pertanto, ma se dobbiamo cambiare “prospettive” nell’affrontare la pandemia di obesità, una domanda va posta: le diete classiche sono ancora uno strumento efficace? Lasciamo la parola a chi con l’obesità fa miliardi di profitti, ovvero alle aziende di prodotti dimagranti: “Quest’anno, 231 milioni di europei hanno fatto una dieta. Solo l’1% otterrà un calo di peso permanente”.  (Datamonitor, importante azienda di marketing). Ogni 100 diete – dicono i leader delle aziende del settore – 99 non portano a risultati duraturi. Forse è per questo che nel Paese da dove proviene la quasi totalità delle diete più in voga – gli Stati Uniti – l’obesità è passata dal 15% del 1980 ad oltre il 40% attuale.

Vivere senza diete, allora? Certo, ma vanno potenziati due strumenti essenziali. Da un lato va estesa capillarmente l’educazione alimentare ai singoli e ai gruppi, dall’altro vanno realizzate efficaci politiche di difesa della salute pubblica, iniziando con una tassa su tutto il cibo spazzatura per finanziare campagne per scelte alimentari alternative. Il passaggio dalle diete all’educazione alimentare è importante perché la maggior parte delle diete sono nate e pensate per essere seguite solo per brevi periodi (ed è per questo che – a livello di popolazione – danno risultati non esaltanti); serve, invece, un’educazione a scelte alimentari e stili di vita, che si adatti ad ogni fase della vita, dalla nascita alla terza età, e che non porti a forme di dipendenza dallo specialista. Quasi tutte le diete, inoltre, in cambio della perdita di peso, penalizzano il gusto e il piacere di mangiare. Noi italiani viviamo nel Paese la cui cucina è considerata la migliore del mondo; secondo Tasteatlas Awards 2023/24 l’Italia è al primo posto come nazione e la Campania è la regione del mondo dove si mangia meglio con Emilia, Sicilia, Lazio, Toscana, Lombardia, Liguria e Puglia ai vertici di questa classifica. Rinunciare a questo patrimonio di ricette e cultura gastronomica non ha senso e non affronta seriamente il problema dell’obesità. (nella foto la classifica di Tasteatlas Awards 2023-2024 sulle 100 regioni del mondo dove si mangia meglio)