Intestino irritabile e FODMAP
Parafrasando Marx, sembra che un nuovo spettro si aggiri per l’Europa: la sindrome dell’intestino irritabile. Nei paesi industrializzati occidentali la prevalenza nella popolazione sembra essere compresa tra il 10 e il 15%, ma i dati sono alquanto incerti per l’estrema variabilità dei criteri con cui si classifica la malattia (con oscillazioni tra l’1 e il 45%!). Come nel caso del diabete e di molte altre malattie croniche, un basso reddito mette più a rischio, probabilmente per il maggiore stress e per le abitudini alimentari errate. Le donne, inoltre, hanno un rischio doppio rispetto agli uomini, in virtù dell’influsso degli estrogeni sul tratto gastrointestinale. Vivere buona parte dell’anno con dolori intestinali e meteorismo, gonfiore e crampi addominali, spesso accompagnati da stitichezza (stipsi) e/o diarrea, comunque, non è facile. In un paziente su 5 – nel 20% dei casi – questi sintomi sono presenti in forma accentuata con un forte impatto sulla vita di tutti i giorni. Al momento non esistono parametri affidabili su cui fare una valutazione certa: come in altre patologie, bisogna procedere per esclusione. In questo modo – provando diete basate sull’esclusione di alimenti – in Australia, all’Università Monash di Melbourne è nata la dieta a basso contenuto di cibi fermentabili, oggi conosciuta come dieta low FODMAPs. Cercando un trattamento per i pazienti con colon irritabile si è visto che si avevano notevoli benefici eliminando, per un periodo di tempo limitato, cibi contenenti alti livelli di alcuni zuccheri semplici e alcoli, in particolare oligosaccaridi, disaccaridi, monosaccaridi e poli-alcoli. Da questi studi è nata – a partire dal 2006 – la sigla FODMAP, che significa oligosaccaridi, disaccaridi e monosaccaridi e poli-alcoli fermentabili. Fare una dieta con bassi livelli di zuccheri semplici significa togliere molti alimenti utili al nostro benessere: si tratta, pertanto, di un regime molto restrittivo da seguire per brevi periodi e sotto controllo, per evitare carenze nutrizionali; è sconsigliata soprattutto alle persone con insulino-resistenza e diabete. Vediamo come funziona la dieta FODMAP. Premettiamo che nella popolazione generale gli alimenti ricchi di zuccheri semplici sono assorbiti e digeribili nel piccolo intestino senza troppi problemi. I processi di fermentazione da parte della flora batterica e la conseguente produzione di gas sono legati – in alcune persone – soprattutto ad alcune molecole; due di queste sono molto conosciute – lattosio (disaccaride) e fruttosio (monosaccaride) – le altre sono meno note e si chiamano fruttani e galattani (oligosaccaridi), sorbitolo, mannitolo, maltitolo e xilitolo (poli-alcoli). In una dieta a basso contenuto di zuccheri e alcoli fermentabili per limitare il lattosio vanno eliminati latte e formaggi freschi, gelati e alimenti con aggiunta di lattosio (come prosciutto cotto); per limitare il fruttosio bisogna rinunciare a molta frutta fresca, al miele e agli alimenti contenenti zucchero (biscotti e merendine, marmellate e succhi di frutta, yogurt con zucchero e dessert, snack, bibite dolci) e alla frutta secca; per limitare fruttani e galattani no a tante verdure, a frumento, segale e legumi; per limitare i poli-alcoli, infine, disco rosso per alcuni tipi di frutta e verdura, per i funghi e per molti dolcificanti. Con tutte queste limitazioni, che cosa rimane da mangiare? Non molto, in effetti ed è questo il motivo per cui questo tipo di dieta viene prescritta da un minimo di 2 ad un massimo di 4 settimane, dopo le quali si reintroducono – uno per volta e con cadenza settimanale – gli alimenti a rischio, valutando caso per caso le quantità che se ne possono assumere senza problemi. Nelle diete FODMAP l’aspetto più limitante riguarda la rinuncia a pane e pasta e il ristretto numero di vegetali da cui attingere: arance e mandarini, fragole, banane e kiwi per la frutta; carote, zucchine, spinaci e bietole, lattuga, pomodori per la verdura. Un buon motivo per affrontare due o quattro settimane di una dieta così monotona e così carente di alimenti protettivi è quello di riuscire a capire che i nostri disturbi non sono legati a fenomeni di intolleranza bensì di malassorbimento. Non è cosa da poco, perché nel primo caso i cibi incriminati devono essere banditi per sempre, nel secondo il problema è cumulativo: dobbiamo imparare a riconoscere i cibi a rischio per il nostro intestino e cercare – con l’esperienza – di introdurne le quantità che non provocano disturbi, senza rinunciare ai loro apporti protettivi in fibra, vitamine, minerali e antiossidanti. (11-2018)
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Nutrizionista Dott. Daniele Segnini
Sono laureato in Scienze biologiche (110/110 e lode) all’università La Sapienza di Roma e sono iscritto all’Ordine Nazionale dei Biologi (n. 050515). Faccio parte dell’Associazione Biologi Nutrizionisti Italiani (ABNI), di Slow Food e dell’Associazione di Medicina e Sanità Sistemica (ASSIMSS); dal 2007 scrivo un blog di divulgazione scientifica su alimentazione, antropologia, biologia, dipendenze, ecologia, invecchiamento, salute, sessualità e sport (www.danielesegnini.it) Sono allenatore FIPAV di pallavolo e faccio parte dell’Albo d’oro dei Nutrizionisti Italiani.
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